giovedì 21 giugno 2018

Le parole , una poesia



Prima si camminava, adesso si telefona o si vaga nella rete. Nella civiltà contadina per vivere bisognava camminare molte ore al giorno. Al mio paese il fazzoletto di terra, che poi era un fazzoletto di pietre, poteva distare anche dieci chilometri. E in un giorno se ne facevano venti, insieme al mulo e alla zappa.
L’Italia negli ultimi anni si è letteralmente fermata. Chi non è fermo davanti alla televisione, è fermo davanti al computer o è dentro un’automobile. Si vedono sul ciglio delle strade solo gli stranieri. Qualche giorno fa ho incontrato una badante che ogni giorno fa cinque chilometri a piedi per spostarsi dal letto dove dorme al letto dove accudisce un’anziana.
Pure io cammino poco ultimamente. Potrei accampare la scusa di una lesione al menisco, ma il motivo vero è che al mio paese non c’è più nessun motivo per camminare. Non ho un fazzoletto di terra da raggiungere, non c’è più nessuno con cui passeggiare. Quando esco in piazza trovo i miliziani del rancore. Qualche spirito più lieve ha ormai da tempo rinunciato a uscire. I ragazzi non amano le vasche, stazionano davanti al bar e si spostano solo per approdare davanti alla sala giochi. I ragazzi non passeggerebbero mai con un cinquantenne.
Per camminare non mi resta che prendere la macchina fotografica e farmi un giro lontano dalla piazza, nel museo delle porte chiuse che è diventato il mio paese. Non sono camminate che fanno bene. Quando torno a casa mi sento peggio di prima. E mi metto davanti al computer a scrivere. Scrivo seduto sul divano, col computer sulle gambe. È una postura che mi consente di rimanere davanti allo schermo anche per sei ore, ma è una postura micidiale. Fra poco girare il collo o piegare la schiena saranno operazioni complicate.
Nei miei testi continuo a fare l’elogio dell’andare fuori, però anche nei miei giri paesologici di fatto passo molto tempo in macchina. Faccio camminate brevi, spesso mi prende lo sconforto e mi rimetto in moto in cerca di un altro paese.
Insomma, quando si parla della penuria di esperienza, bisogna ricordare che sta diventando impossibile proprio quella fondamentale, quella del camminare.
Ultimamente si vedono dei camminatori infelici, gente che ha avuto un infarto o teme di averlo. E allora avanti, avanti con la cura coatta del corpo, avanti col fregarsene di quello che accade intorno a noi. L’importante è stare in forma, anche se poi non si sa bene che farsene di questa forma. Al massimo si può telefonare o scrivere al computer.
Io credo che il primo gesto per ridare spazio al camminare sia quello di chiedere le dimissioni del capitalismo burocratico. Ci sono troppi uffici, troppe scrivanie. Le persone hanno la testa allagata di parole. E quando stai con la testa allagata di parole camminare più che salutare è doloroso. Dovresti guardare il mondo e sei fermo nella palude delle tue ansie, delle tue paure, delle tue recriminazioni. Vorresti camminare in leggerezza, soffiare via ogni peso e invece sei addobbato come un albero di natale e continuano ad arrivarti pesi da ogni parte.
Adesso il computer ce lo portiamo in tasca. Per aprire la posta elettronica non c’è bisogno di tornare a casa. Basta sedersi e vedere che dicono di noi gli altri infermi come noi.
Dal nomadismo al divano è passato molto tempo, lo stesso che divide l’età della pietra da quella della piastrella. È arrivato il momento di rimettersi in cammino, ma senza aloni misticheggianti. Camminare per guardare, camminare perché percepire è più importante che giudicare, guardare quello che c’è piuttosto che pensare il mondo per come ce lo hanno descritto altri. È tempo di uscire, di sciamare nell’esterno, per vedere come ogni giorno qualcosa si disfa e qualcosa si forma.
Non bisogna camminare per allungarsi un poco la vita, ma per renderla più intesa. Uscire a vedere, girare dietro e intorno alle cose, attraversarle, collezionare dettagli, misurare la realtà con la pianta dei piedi. Il mondo è colossale, non può essere richiuso nella baracca del nostro io. Abbiate cura di andare in giro. Non rimanete fermi come uno straccio sotto il ferro da stiro.

Il cammino degli infermi di Franco Arminio





La poesia nelle parole


Adesso io sono qui da sola in questa grande casa. Non ha più senso neppure il pensiero di ammazzarmi. Lasciare il mondo aveva senso quando c’era il mondo. Adesso che il mondo è morto possiamo solo stare qui a vegliarlo, soffrendo per gli indemoniati che ci circondano e che al mondo morto provano a rubare gli occhi, le ossa, come se il mondo fosse una cava. Ecco il mio dolore, non riuscire a chiudere gli occhi, non riuscire a partecipare all’assalto, al saccheggio. Non c’è più una sola persona a cui posso chiedere qualcosa. Certe volte per orgoglio mi sono nascosta, certe volte ho parlato senza averne voglia. Adesso nessuno mi cerca e non ho voglia di cercare nessuno. Pensavo che la vita contasse più dei pensieri, pensavo che con un’altra persona avrei placato il mio dolore. Invece si trattava solo di mettere in forma il proprio sentire, i propri pensieri. Si può fare scrivendo, si può fare suonando, insegnando, si può fare anche tacendo. Quello che conta è capire che la vita è un inganno e non possiamo contare su nessuno e su niente. Non c’è dialogo neppure con la natura. Mi fanno ridere quelli che parlano con gli animali, quelli che pensano ai sentimenti delle piante, all’emozioni delle pietre. Siamo un niente senza compagnia, da qui bisogna partire e incontrare il miracolo provvisorio, di un passo, di un sorriso. La vita si può onorarla solo riconoscendo la sua radicale inconsistenza. C’è ancora tempo per farlo, ogni respiro che abbiamo in fondo è un’occasione non per realizzare qualcosa, non per arrivare a un traguardo, ma per sentirsi, per sentire il nulla a cui siamo arrivati. Io non lo so com’era il mondo prima di noi e non so neppure com’erano gli uomini mille anni fa. Ho cercato di capire per anni, per anni ho avuto lo sguardo al passato. Adesso il mio sguardo si muove nell’aria come una farfalla. L’aria non è inconsistente, il mare non è inconsistente, e poi c’è il nome di una persona, c’è da stringere la mano di uno che sta morendo. Ora la vita può popolarsi di gesti unici, semplici e arresi, privi di ambizioni, gesti che non cercano intese. Nessun misticismo in tutto questo, in fondo si tratta solo di passare il tempo. Da questo punto di vista la mia vita ora non è diversa da quella di dieci anni fa. E i contemporanei non sono diversi dagli antichi. Io non ho muri intorno a me, non ho strade davanti a me. Mi muovo nell’aria come una farfalla infelice perché non ha neppure un fiore in cui posarsi.

DOLORE DI DONNA di Franco Arminio